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Un’Expat a metà

Per iniziare l’anno e ricominciare il racconto di questo sito un racconto che ho scritto qualche tempo fa. Non è cambiato molto: da allora non sono riuscita a tornare in Irlanda. Non ancora. E sono rimasta sospesa nel mio essere Expat a metà. Buona lettura.

Un’esperienza interrotta

La mia vita di Expat a metà si è interrotta il 9 febbraio 2020 in una mattina di sole freddissima, dopo una giornata a seguire le Elezioni Generali a Dublino. Non è facile partire ma neanche essere Expat a metà ed io lo sono diventata a 40 anni dopo aver perso il lavoro, nel tempo in cui si poteva viaggiare senza dover per forza decidere. Senza poterlo fare.

Nord Irlanda, in un posto molto posh

La mia prima destinazione è stata Bangor, Nord Irlanda. Un posto molto posh, sulla baia di Belfast, piccolo: la piazza, la strada principale, la Marina. E tante, tantissime chiese, diverse. Bangor non è solo uno dei paesi del Nord Irlanda dove l’Orange Order è più forte, ma davvero puoi trovare di tutto, non solo i protestanti della Church of Ireland, ma anche i Battisti o i Presbiteriani.

Tentazioni repubblicane

When the Auld Triangleeeee”.

“Zitta, vuoi che escano a picchiarci gli Unionisti?”.

Presa dalla gioia una sera mi metto a cantare per strada la vecchia canzone dei rivoluzionari irlandesi, imparata ai concerti di Glen Hansard.

Un’amicizia

Karen, insegnante di inglese, mi tappa la bocca. Born in County Sligo, Republic of Ireland, è diventata la mia più cara amica. Abbiamo sviluppato negli anni un codice per ricordare tutte le cose che ci sono capitate: sembriamo battutiste di una stand up comedy.

Devotissima di Padre Pio, Karen è stata capace di farsi 1000 chilometri in treno in pieno inverno per andare a San Giovanni Rotondo a baciare il sacro guanto.

Ed ha previsto nel 2016 l’elezione di Trump per colpa del “leap year”, l’anno bisesto. Non le credeva nessuno.

Dio ci dà ben di più di una pinta di Guinness

A Bangor una mattina andiamo a messa in una Chiesa cattolico romana: “E’ lontana, ci metterete un sacco di tempo” ci avevano sconsigliate. Mosse da uno spirito incosciente, di certo non supportate da una vera e propria abitudine ai precetti, ci perdiamo. A un certo punto comincia anche a piovere e Karen inizia a urlare ridendo: “Il Signore si è commosso perché stiamo andando a Messa”. Ne valeva la pena: predica non convenzionale, il prete ricorda una vecchia pubblicità in voga negli anni cinquanta: “Dio ci dà ben di più di una pinta di Guinness”.

Si dice che l’Irlanda dopo le tempeste della pedofilia abbia perso la fede. Eppure in quei pochi che la praticano c’é una maggiore autenticità.

Era un brav’uomo

Una volta con Karen siamo andate a Bellaghy allo Seamus Heaney homeplace, nella landa in cui la famiglia del poeta premio Nobel possedeva il podere in cui il giovane “Giacomo” è nato e cresciuto. Bellaghy è un micropaesello nel bel mezzo della contea di Derry. Ti sembra di stare in una scena di The wind that shakes the barley, e invece è l’unico Airbnb del posto. Una casa in cui viveva un uomo, ex prigioniero di Long Kesh con tanta, tantissima voglia di parlare.

Un autentico cimelio vivente, con tanto di cicatrici delle molotov fatte scoppiare, presunte fidanzate libiche del periodo in cui l’IRA faceva rifornimento di armi da Gheddafi, uno scritto originale di Heaney appeso al muro e una sala piena di strumenti per suonare la musica celtica.

E tanta voglia di parlare.

Un buon uomo, che aveva costruito quella casa con le sue mani per non impazzire al ricordo delle torture.

Slang acquisito, perfetta irlandese

Mentre faccio un’intervista rispondo “grand” per dire “bene” e Karen, a cui ho chiesto di accompagnarmi fa notare all’intervistato come ormai sia una di loro: parlo come un’irlandese che conosce i termini dialettali. Striscio le gutturali e pronuncio l’avversativa “but” con una bella doppia che la fa diventare più simile a quello che nel formale British English si tradurrebbe con culo.

Sono rimasta un’Expat a metà anche perché a Dublino prima della pandemia un posto letto, un cubicolo per poter riposare in una qualsiasi casa con una media di dieci persone provenienti di mezzo mondo costava mille euro.

Tutto il mondo in una valigia

Una volta sono andata a dormire in un ostello. Per trenta euro a notte mi hanno dato un loculo che ho diviso con un indiano con una valigia enorme che pensava di essere arrivato a frequentare una scuola di economia al pari di quella di Londra e con un muratore ucraino che si alzava sempre alle quattro e aveva tutta la vita in una borsa piccolissima. Una notte è arrivata la Garda, la polizia, per sedare uno degli ospiti che girava per i corridoi ubriaco e nudo. Le donne andavano a fare la doccia tutte vestite. Il tutto per 50 euro a notte.

Nella Dublino degli ultimi

C’é stato un tempo in cui sul lungo Liffey la domenica mattina era una lunga teoria di homeless nei cartoni. Un tempo in cui mi perdevo per Smithfield tra la fila di chi d’estate o pagava l’affitto o dava da mangiare ai figli e così a mangiare li portava alla mensa dei Cappuccini. Ho immaginato che da un momento all’altro arrivasse anche Rocky, l’homeless della canzone dei Bell X1, invecchiato dopo 25 anni. Lo avrei riconosciuto. Non ho mai visto Dublino come una cartolina e per me è una città bellissima. L’ultima estate l’ho passata nel Northside, con la malinconia inconsapevole. Non so quando potrò andare. Ma ho un biglietto quasi pronto, sempre. Voglio tornare a fare la Expat a metà.

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